Levko aveva lavorato sodo quella mattina, senza
risparmiarsi, come smemorato dell'impegno che lo attendeva solo poche ore più
tardi. A guardarlo più che la persona fisica ti restava negli occhi, oltre
alla luce dei capelli chiari, la sua inesauribile
energia; era tanto magro quanto pieno di vigore. Il cielo era limpido, e
l'aria, che ancora portava con sé residui pungenti della furia invernale, si
divertiva a schiaffeggiare le gote arrossate dei contadini e dei mandriani
all'opera. Tra il bosco e i campi, i floridi germogli di un fronte di betulle
salutavano lo sciogliersi dell'ultima neve. Sul prato i cavalli più giovani
giocavano a rincorrersi dando sfogo al bisogno di vita reso impellente dalla
costrizione di un inverno trascorso al chiuso delle stalle. Nei villaggi i
bambini, quasi a voler raggiungere le prime rondini, si arrampicavano sui
muri, sugli alberi, sui tetti delle case, e cantavano in cori di tre o
quattro, brevi filastrocche propiziatorie in omaggio alla buona stagione alle
porte. Mentre nelle case le donne modellavano con cura la pasta per ricavarne
dolci a forma di piccoli uccelli, che dovevano esser pronti prima di sera.
Oggi si celebrava il primo giorno di pascolo del bestiame, e come ogni altro
giorno di festa, in preda all'euforia, tutti sembravano accantonare le
asprezze e gli stenti della vita quotidiana. E il piccolo padre era troppo
distante dagli sperduti, insignificanti villaggi ucraini per occuparsi dei
nostri guai. Tanto valeva divertirsi e non pensare ad altro che non fosse la
Corsa del bosco o che in qualche maniera si richiamava ad
essa.
La Corsa si perpetuava ogni anno da un tempo indefinito, perso nella memoria
degli antenati. Coinvolgeva tre villaggi e i contendenti dovevano
attraversare il bosco per un tratto di circa sette verste. Venivamo
trasportati sopra un barroccio nel cuore della foresta, e quando il sole era
ormai prossimo al crepuscolo, uno dei tre giudici (uno per ciascun
villaggio), sorteggiato, dava inizio alla gara. Il traguardo era la piazza
del borgo centrale, il più vicino al bosco; il nemico più insidioso era il
buio, che verso la fine della gara avvolgeva ogni cosa, e potevamo dirci
fortunati quando, come oggi, era presente un quarto di luna a rasserenare la
via.
Volendo, noi corridori potevamo commettere scorrettezze d'ogni sorta per
danneggiare gli avversari, dato che subito dopo il
via, i tre giudici partivano al galoppo verso l'arrivo e nessuno poteva più
controllarci. Ma una sorta di mano invisibile,
ultraterrena, impediva il verificarsi di ogni slealtà, anche la più
innocente. In ogni cosacco della zona era radicato il timore degli spiriti
del bosco. Essi avrebbero colpito puntualmente chiunque si fosse macchiato di
qualsivoglia azione fraudolenta. Al riguardo se ne
raccontavano tante: vincitori sgozzati nel proprio letto o divorati dal
fuoco, altri, provetti nuotatori, misteriosamente annegati nel torrente, e
qualcuno inghiottito nel nulla e mai più ritrovato. Se invece un corridore
cadeva vittima di un incidente casuale, i rivali non erano tenuti a
soccorrerlo. Chi lo avesse aiutato lo avrebbe fatto soltanto in ossequio al
suo onore di cosacco, in caso contrario: nulla da temere dagli spiriti.
Il pranzo che si consumò quel giorno, non fu molto più abbondante degli altri
giorni di festa, ma nei boccali dei cosacchi si vedevano scorrere fiumi di
vino rosso. Sulle tavolate di ogni villaggio i discorsi finivano per
convergere su un comune argomento: la Corsa. Non rappresentava soltanto una
competizione, molti valori erano contenuti in quell'evento di
inizio primavera. Non è facile spiegare il lato irrazionale dell'uomo
che trova modo di esprimersi attraverso le regole, almeno all'apparenza, logiche, di un gioco. E, ad ogni modo, non bisogna
dimenticare il vitello grasso destinato al vincitore, e il diritto riservato
ai suoi compaesani di sbeffeggiare impunemente per un intero anno gli
abitanti degli altri due villaggi, senza che questi avessero,
almeno sulla carta, la possibilità di ribattere alcunché. Regola che nei
fatti veniva spesso disattesa, ed anzi, talvolta
capitava che lo sbeffeggiato non si limitasse a rispondere soltanto con la
lingua.
Ogni paesino aveva il suo "eroe". Alla gara partecipava un
esponente di ciascun villaggio più il vincitore dell'anno prima: quattro in
tutto. Nel nostro borgo, quello centrale, si faceva
un gran parlare di Levko, il biondo vincitore
dell'anno precedente. Ma non mancavano simpatizzanti
dell'altro corridore, Igor, più vecchio, dai capelli grigi; alle spalle
numerose gare. Era falegname, e dalla morte dello zio paterno, Stepan Nazarovic, che lo era
stato per quarant’anni, anche maestro di scuola. Questo ero io.
Secondo la consuetudine avevamo trascorso entrambi la mattinata lavorando
sodo, proprio come un giorno qualsiasi, mostrando di non badare all'impegno
che ci attendeva. Levko fra le sue vacche ed io
nella mia bottega di falegname, poiché oggi a scuola era vacanza. Quando si
approssimò l'ora della sfida, freschi come germogli di betulla, eccoci nella
piazza dell'arrivo ad accogliere gli altri due cosacchi giunti dai villaggi
laterali. Non mancavano i loro sostenitori, numerosi, esuberanti, euforici
come sempre. Chiunque avesse vinto, avrebbero trascorso lì la notte, fra
canti, balli e dispute, che non eccezionalmente degeneravano in risse, quasi sempre circoscritte e presto placate dall'intervento
dei più savi. Alle prime luci dell'alba avrebbero intrapreso la strada di
casa assieme ai loro campioni.
Confusamente ma in breve tempo, come obbedendo ad
una regia latente, il gregge degli spettatori si dispose ai margini della
piazza in modo da non intralciare le operazioni successive. Finché alle loro
grida non si sostituì il suono cantilenato delle campane e fu il momento del
pope con la benedizione rituale. Una sorta di esorcismo nei confronti della
festa che affondava le sue radici in epoche sicuramente pre-cristiane. Le
autorità ecclesiastiche, pur subodorando qualche residuo di paganesimo, non
avendo avuto nel corso dei secoli forza sufficiente a proibirla (tanto era
radicata fra la gente) avevano finito per parteciparvi e in qualche modo
riassorbirla nel proprio seno. Lo starosta più
anziano alzò le braccia al cielo: i concorrenti salirono sul carro e i
giudici sui loro cavalli li seguirono.
I volti sul barroccio muti e arrossati dagli ultimi bagliori, apparivano
imperscrutabili agli occhi di un profano. Ma io, che
avevo percorso quel tragitto già tante volte, sapevo anche senza guardare. La
paura, nelle sue varie forme, era di certo la sensazione predominante. E
ognuno dava importanza alla sua. Paura della notte, degli
avversari, paura di non farcela, degli spiriti, paura del torrente, della sua
furia. Per me i demoni del bosco non costituivano un problema. Ad essere sinceri non credevo granché alla loro esistenza,
e comunque sia reputavo la mia coscienza sufficientemente a posto da non
temere nulla da quel lato lì. Piuttosto quello che mi tormentava
era il tempo. Quello trascorso, e il mio secondo me non era poco; e quello
della corsa, che naturalmente doveva essere inferiore al tempo degli altri
tre per consentirmi di vincere.
Non conoscevo i nomi degli sfidanti degli altri villaggi, o forse non li
rammento. Dal colore dei capelli li chiamavo il Rosso e il Bruno. Ricordo che
una sottile occhiata d'intesa unì come un lampo i
loro sguardi, ma non so dire se fu soltanto un'impressione. La mia attenzione
si concentrava su Levko. Era fiero e sicuro di sé.
Pensare che quando disputai la prima corsa era poco
più di un cucciolo; fu anche l'unica volta che vinsi.
"Siamo onesti cosacco" pensai "non
hai che una possibilità su cento di arrivare in piazza prima di lui. Anche se
le insidie che il bosco nasconde sono molteplici e impreviste, anche se non
conta solo il vigore per vincere, non ti rimane che una possibilità su cento."
Tuttavia ero pervaso da una forza interiore che m'induceva a sfidarlo, una
forza che sfuggiva alla mia volontà, che sublimava la paura della sconfitta,
anzi, starei per dire che la rendeva dolce, quasi auspicabile ... Che stessi diventando pazzo?
- E allora, cosacchi, chi arriverà primo quest'anno?
- Irruppe profanando la quiete il vecchio
carrettiere, inebetito dal vino e dal silenzio. Nessuno rispose. E d'altronde
il risultato non sarebbe stato diverso se avessimo risposto tutti, giacché
ognuno di noi avrebbe assicurato che sarebbe stato lui stesso a vincere. Ma nonostante la sua fosse una domanda tanto inutile
quanto inopportuna, nessuno avrebbe potuto fargliene una colpa. Non era la
prima volta che si prestava a trasportare i corridori, solo per il gusto di
viaggiare con noi, o per sentirsi in qualche modo vivo ed
utile alla comunità. Lavoro ingrato, perché lui sarebbe stato l'unico a non
vedere l'arrivo della gara, dato che la strada
sterrata era più lunga del sentiero nel bosco e il carro più lento dei
corridori. Forse per questo ogni volta domandava in anticipo chi avrebbe
vinto, e anche perché al ritorno avrebbe avuto tutto il tempo di starsene solo
e muto.
Nel silenzio procedemmo come di rito a sfilarci le casacche che appoggiammo
sul carro. Una volta scesi, i giudici ci avvisarono di un particolare che
conoscevamo bene:
|
- Il ponte è fuori uso.
Perciò dovrete guadare dove l'acqua del torrente ve lo consentirà.
Il ponte che avevamo oltrepassato con il barroccio non faceva parte del
sentiero della gara e dunque non ci era consentito
utilizzarlo. Significava allungare il percorso di almeno due o tre verste, e
un'insidia in più; giacché si può bene immaginare quanto sia complicato al
buio trovare il punto meno lontano dove guadare il torrente senza rischiare
di restarci per sempre.
Non appena uno dei giudici con un colpo di fucile in aria diede inizio alla
corsa, s'udì lo scalpitio dei loro cavalli spronati
con foga verso l'arrivo, quasi fossero loro i contendenti. Da parte nostra
prendemmo a correre nella penombra sgomitandoci senza convenevoli per aprirci
un varco nel sentiero reso angusto da una fitta vegetazione. Ci rincorrevamo
in fila indiana a distanza tanto ravvicinata che ognuno poteva sentire il
fiato del diretto inseguitore. Tutti tranne me. Buon ultimo, controllavo le
intenzioni degli altri, e soprattutto avevo esperienza del moltiplicarsi
delle insidie dopo la prima versta: la piana s'interrompeva e subentravano
curve a gomito a secondare un'altura. Era facile in quei tratti di terreno
sassoso precipitare nel dirupo e cadere preda delle fiere.
Fu Levko a prendere il
comando della corsa, l'unico ad avere i capelli così chiari; inconfondibile
pure nella luce sempre più tenue. Dietro di lui, appaiati gli sfidanti dei
villaggi laterali. Gli strigiformi emettevano il loro cupo e profondo
bubbolio intercalato da frequenti stridii piuttosto acuti, che s'infrangevano
nel freddo silenzio della foresta. Forse avveniva un po' prima del consueto e
questo poteva essere interpretato di cattivo auspicio, ma non da me che ero
concentrato nella gara e che la malasorte ero portato a vederla più dentro me
stesso che nei segnali esterni. Percepii un drappello di corvi nel loro
ultimo vagabondare della giornata. Dalla testa s'udì
un lamento secco e trattenuto che si impose al sottofondo naturale.
"Vedrai che Levko non s'è accorto di qualche
ostacolo", pensai. Essere primi implicava il
rischio di cadere nelle piccole insidie non prevedibili e di evitarle agli
inseguitori, ma, buon per lui, stavolta ne era uscito senza danni seri. La
sua generosità agonistica confinava con l'incoscienza; sono certo che fosse consapevole dei pericoli che avrebbe corso
portandosi al comando fin dall'inizio, ma la sua tempra e la fiducia nelle
proprie forze non gli consentivano un atteggiamento diverso.
Senza troppi ostacoli raggiungemmo il torrente e qui ci affidammo alla luna
per trovare la via più adatta a superarlo. Levko
non si avventurò a cercare scorciatoie e fece assegnamento sulla sua energica
falcata per guadagnare ancora vantaggio. Il Rosso e il Bruno invece
rallentarono appena, e dai loro movimenti mi parve di capire che avevano
fiutato un punto buono prima del previsto. Sarebbe stato un bene anche per me
che li seguivo dappresso e avrei potuto avvantaggiarmi della loro scoperta.
Ecco che il Rosso si avventura in una piccola ansa del torrente dove le acque
danno l'impressione di rallentare. Anche io mi
preparo a seguirli. Ma un tonfo sordo nell'acqua mi
blocca; seguono concitate imprecazioni urlate con rabbia e intravedo il Rosso
aggrapparsi al Bruno che stenta a trascinarlo fuori dalla corrente. Non era
un punto buono. Sono frazioni di tempo preziose.
Riesco a superare i due che adesso sono fuori pericolo ma, oramai, salvo
sorprese, fuori anche da ogni possibilità di vittoria. Mi getto
all'inseguimento di Levko riscosso da quella sorta
di abulia che mi aveva colto prima della gara. In me si stava risvegliando
l'istinto della competizione. Avrei dato una lezione di umiltà a quello
sprovveduto che da troppo ormai si pavoneggiava in testa alla corsa.
"Fra breve il sentiero si restringe" pensavo
"ecco, è ora, prima della grande quercia. Mi sembra di recuperare
lo svantaggio, magari solo di un palmo ma ho la sensazione netta di essergli
più vicino, e quei due alle mie spalle non li sento più, devo averli
distanziati ancora. Vedrai che alla strettoia rallenta, le curve aumentano e
anche le buche, io invece lo conosco bene quel
tratto, e inoltre c'è il torrente..."
In realtà Levko, salvo una lieve incertezza nei
pressi della quercia, non perse terreno. E il torrente fu in grado di
superarlo nel punto migliore senza concedermi alcun vantaggio. La distanza
che ci divideva restava invariata o era diminuita di poco, malgrado io
gettassi nel fuoco dell'agone tutte le mie risorse. Caddi in preda allo
sconforto che in breve divenne disperazione rabbiosa e sconnessa. Mi diedi a
maledire la mia irresolutezza che gli aveva consentito di guadagnare un
vantaggio divenuto insormontabile, e se non fosse stato per il fiato grosso avrei voluto imprecare ad alta voce. Quella forza
interiore che mi aveva colto sul carro e che m'avrebbe
persino reso gradita la sconfitta, in quel momento era divenuta estranea. Ma
tutto avveniva dentro al mio cuore affannato,
impercettibilmente, avvolto nell'oscurità e nei suoni limpidi e lontani della
foresta.
"Perdio che succede..." pensavo ansimando
"si allontana di nuovo... le mie gambe non girano più e saremo a meno di
due verste dal villaggio... Già s'intravvedono i fuochi. Maledette gambe di
pasta frolla non lasciatemi adesso..."
Il dolore al fegato che mi aveva colto verso la metà della gara non lo
sentivo più, soffocato dalla fatica e dalla respirazione che aveva preso il
ritmo di una vecchia locomotiva a stantuffi lanciata nella piana sterminata.
Solo una forza sovrumana poteva soccorrermi. Dio in persona, che ora chiamavo
in causa quasi ad ogni passo, o magari i geni del bosco, sui quali peraltro
non riponevo grande fiducia.
"Dio delle foreste, è un cosacco o un demonio?...
Sia l'uno o l'altro non devo arrendermi adesso. C'è ancora speranza..." Era comunque uno spettacolo assistere alla sua
corsa, anche se ora il buio era tale che si poteva soltanto intuire,
immaginare. I suoi passi erano continui, cadenzati, esuberanti come il
torrente in piena; li sentivo dentro di me più netti delle mie pulsazioni.
"Coraggio cosacco devi mettercela tutta!" Ripetevo a me stesso
"Devi raggiungerlo, devi vincere!"
Già, vincere. Sarebbe stato come appropriarsi per un istante, l'attimo della
vittoria, dell'armonia della sua corsa, del suo vigore; e... guardando in
faccia la realtà, quella sarebbe stata la mia ultima occasione. Lo scorso
anno mi ero ritirato prima di raggiungere il torrente. Avevo dato la colpa alla radice sporgente di un albero, ma la
verità era che stavo diventando vecchio. Tuttavia allora non rimuginai queste
cose, e fu meglio così. Pensa solo a quello che fai se vuoi farlo bene,
ripeteva il povero maestro Nazarovic; e io in quel momento badavo soltanto a correre, correre
più forte delle forze che mi rimanevano.
Un rumore improvviso e un grido ruppero la mia concentrazione a meno di una
versta dalla fine. Trasecolai dinanzi alla sagoma di un uomo capovolto. Aveva
la testa in giù e le gambe in aria. Stavo per ricredermi sui poteri degli
spiriti. Avvicinandomi riconobbi Levko divincolarsi
con una gamba bloccata da un laccio, il capo era appena sospeso da terra. Era
preda di una trappola, lasciata così vicina al villaggio da qualche
cacciatore sprovveduto.
La fortuna giocava a favorirmi. Il primo, annientato da una beffa della sorte
senza che io avessi mosso un dito e senza obbligo alcuno da parte mia di
prestargli soccorso, e gli inseguitori troppo lontani per
raggiungermi. Neppure la mia coscienza di cosacco avrebbe avuto nulla
da rimproverarsi: Levko era in una posizione
scomoda ma non correva pericoli, appena arrivato
avrei mandato qualcuno a liberarlo. Tuttavia non mi sentivo per niente
appagato. Avvertivo a pieno i suoi lamenti stizzosi e i vani tentativi di
liberarsi dal cappio, tanto che per qualche lungo istante sembrò come se la
sua anima fosse penetrata in me. E fu una sensazione niente affatto piacevole
perché la disperata sorpresa del giovane cosacco era diventata la mia
sorpresa, e così il suo dolore, la rabbia, la paura, il senso di una
sconfitta immeritata. Le cose non stavano seguendo il giusto ordine, e anche
se all'apparenza andavano a mio favore, ero io il
primo a soffrirne. La necessità di rimediare all'ingiustizia si palesò con
urgenza; non erano ammesse esitazione che avrebbero
fatto il gioco degli inseguitori; la stanchezza premeva affinché arrivassi al
più presto, e pur non essendo del tutto convinto mi avvicinai e Levko, senza che dicessi nulla, si aggrappò alle mie
gambe sollevandosi appena. Così potei più facilmente allentare il cappio e
liberarlo. Con un balzo si ritrovò in piedi e pronunziò un grugnito
incomprensibile che mi parve carico di riconoscenza. Indugiò prima di
ripartire. "E' dolorante" pensai, "oppure vuole
avvantaggiarmi."
Ero stremato e aspettavo da un momento all'altro di venire
raggiunto da qualcuno. Gli acuti delle civette si affievolivano mentre il
bagliore dei fuochi sulla piazza diveniva sempre più nitido. "Cosa fa... non mi supera ancora?" Mi domandavo
"Forse è ferito... Ma no, i suoi passi li sento bene... forti e regolari
come sempre. Vuole farmi vincere... vuoi vedere che
per ringraziarmi vuole farmi vincere. Non è giusto così non è vincere..."
In prossimità dell'arrivo quando la presenza dei paesani si manifestava nella
baraonda della festa e nelle urla di incitamento, mi
voltai a guardare il mio avversario. Non vidi molto perché incespicai in una
buca caracollando in avanti per qualche passo verso il traguardo, e quando
forse Levko mi aveva riagguantato
stramazzai al suolo. Ero sfinito per rendermi conto di quanto avveniva, e la
caduta mi fece perdere i sensi. Fui probabilmente l'unico partecipante nella atavica storia della Corsa del bosco a condividere
la sorte del carrettiere: non assistere all'arrivo.
Quando rinvenni, ero lucido abbastanza da chiedere alle persone che trovai
accanto a me di non rivelarmi né ora né mai il nome del vincitore. In caso di
vittoria mi dichiaravo pronto a rinunciare al vitello grasso che avrei
offerto in beneficenza ai bambini più poveri del villaggio. Vincitore o
sconfitto, ne avrei parimenti sofferto. Dimenticare tutto: ecco la soluzione
ideale; nondimeno subentrava un'emozione imponderabile che m'introduceva in
una sorta di eccitamento vitale che avevo già conosciuto. Qualcosa che
giungeva da lontano, dagli albori della vita, ma non soltanto dalla mia,
dall'infanzia primeva dell'intera umanità. Malgrado ciò non avrei mai voluto
sapere come fosse finita quella gara. Com'era prevedibile il segreto non durò
a lungo, soltanto i giorni trascorsi in casa per riprendermi dalla caduta.
Circa una settimana più tardi alcuni scolari parlando fra
di loro, senza volerlo mi rivelarono che nonostante tutto, nonostante
me stesso, ero arrivato primo.
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